venerdì 30 settembre 2011

Il giardino, un sogno di gioia a colori


La pratica universale della coltivazione di fiori e piante dall'antica Babilonia ai «guerrilla gardening»
Indica che gli uomini in ogni epoca aspirano alla contemplazione. Dall'Eden a Voltaire, a Kurosawa
«Dove uno costruisce, pianta alberi», recita un proverbio turco caro a Le Corbusier. Non si parla, qui, solo di alberi da frutto né si allude forse, in primo luogo, alla questione di un'architettura ecologicamente sostenibile, con un giusto rapporto di superfici edificate e aree verdi: la pratica universale della coltivazione dei giardini, piuttosto, dall'antica Babilonia a oggi, indica che gli uomini non sanno limitarsi a ciò di cui hanno bisogno, che i loro desideri eccedono il livello della pura necessità biologica.

Ne è una conferma anche il singolare movimento del guerrilla gardening, i cui membri, diffusi in diverse città del mondo, si appropriano dei «lotti vacanti», degli spazi urbani abbandonati a loro stessi
dai proprietari o dalle municipalità, e combattono il grigiore circostante utilizzando come armi le petunie, i girasoli, i tulipani, le bocche di leone, la lavanda.
Nella prefazione a un bel volume di Michela Pasquali, I giardini di Manhattan. Storie di guerrilla gardens (Bollati Boringhieri, pp. 144, euro 18), l'antropologo Franco La Cecla, riferendosi appunto ai piccoli spazi verdi autogestiti del Lower East Side di New York, osserva che spesso il bello «ha a che fare con l'inaspettato»; in molti casi, esso si mostra «come forma di left out di qualcosa che è stato casualmente dimenticato.

La bellezza appare dove meno te l'aspetti». Al piacere legato alla percezione dei fiori, delle foglie, delle siepi e degli stessi muri di cinta e cancelli d'ingresso degli horti conclusi il filosofo Rosario Assunto aveva dedicato, nel 1988, il saggio Ontologia e teleologia del giardino (Guerini e
Associati, pp. 181, euro 15,50). In queste pagine, egli polemizzava contro l'ideologia del «verde attrezzato», per cui giardini e parchi servirebbero a ristorare le forze e lo spirito di chi li frequenta, in modo da consentire un rapido ritorno alla vita ordinaria, regolata dalla presunta equazione tempo=denaro.

«Il giardino – scriveva Assunto – è spazio assolutamente altro dagli spazi che la nostra quotidianità consuma consumandosi in essi»; e, del giardino, proponeva la seguente definizione: «luogo destinato a vivere la contemplazione e a contemplare la vita nell'atto stesso di viverla»; un'opera d'arte, dunque, che nascerebbe dalla collaborazione tra l'uomo e la natura, e il cui scopo primario (non in
aggiunta alle destinazioni pratiche, come avviene di norma per le altre realizzazioni architettoniche) sarebbe il godimento estetico di chi si trova a vivere in essa.

Non stupisce, allora, che proprio l'immagine di un giardino – «piantato in Eden, a Oriente», secondo il testo di Genesi 2,8 – si sia impressa nell'immaginario collettivo, a significare un luogo di gioia
perfetta, una patria universale, in cui le contraddizioni della storia sarebbero finalmente risolte: i filologi ci spiegano che l'espressione «paradiso terrestre» deriva dalla decisione dei traduttori della cosiddetta Bibbia dei Settanta – attivi ad Alessandria d'Egitto, a partire dal III secolo avanti Cristo – di rendere l'originario termine ebraico gan («giardino») con la parola greca parádeisos, che a sua volta rimanda all'antico persiano pairidaeza («luogo recintato»).

Certamente, come tutte le immagini capaci di mobilitare e attrarre le passioni umani, anche quella del giardino come luogo di pace e di delizie è sempre a rischio di corrompersi, di ridursi a caricatura: è quanto avviene, ad esempio, quando le siepi perimetrali sono pensate come una barriera a chiusura ermetica, un confine invalicabile tra l'interno e l'esterno. Il faut cultiver notre jardin: per difenderci dalle asprezze del mondo, dovremmo limitarci a «coltivare il nostro orto», si dice nel finale del Candido di Voltaire; e l'ideologia del «verde privato», nei suoi tratti più grotteschi, ha costituito il tema di moltissimi racconti, vignette umoristiche, film e cartoni animati.

Tuttavia, non si può giudicare il valore di un sogno, ricorrente in tutte le epoche, dalle sue versioni scadenti. Vogliamo perciò ricordare una seducente sequenza cinematografica sull'intimità che può stabilirsi tra un essere umano e le piante coltivate. Ne «Il pescheto» – il secondo episodio di Sogni, di Akira Kurosawa –, un bambino esce di casa per seguire una misteriosa ragazza con un abito rosa;
giunge così a un pendio a terrazze, dove fino a poco tempo prima sorgevano dei peschi, che i suoi parenti hanno però fatto tagliare.

Qui gli appaiono gli spiriti degli alberi, magnificamente vestiti come le bambole della tradizione
giapponese e dapprima lo rimproverano per quanto è accaduto; poi, vedendo il bimbo piangere e disperarsi lui pure per la perdita del pescheto che tanto amava, lo consolano evocando dal nulla un turbine di petali rosa: come se i fiori, nella loro fragilità, possedessero il segreto di una sopravvivenza alle ingiurie del tempo.

Giulio Brotti - L'Eco di Bergamo - Sabato 01 Ottobre 2011 TERZA, pagina 54

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